martedì 16 luglio 2013

Buttiamolo nel mix….. spunti operativi sull’analisi della marginalità.


Analizzare i margini in una realtà commerciale articolata richiede alcune attenzioni, in particolare quando si è in presenza di una segmentazione (prodotto/cliente/canale) con livelli di profittabilità molto diversi al suo interno. In questi casi il margine totale può variare anche significativamente a seguito di spostamenti di volume tra i segmenti. Il delta mix, a volte considerato un sottoprodotto residuale dell’analisi di base (prezzo, cambio, volume), in alcuni casi spiega la maggior parte dello scostamento e, se non correttamente interpretato, comunicato e gestito, può portare spiacevoli sorprese.

Non dimentichiamo il riferimento


La base di riferimento (tipicamente il budget) deve avere un livello di dettaglio sufficiente da permettere di identificare eventuali spostamenti di volume tra elementi a marginalità diversa. In altri termini, posso permettermi di fare un budget a livello di gruppo di prodotti (e non di codice prodotto) solo se sono certo che i prodotti all’interno del gruppo saranno sempre allineati tra loro in termini di margine. Se le cose non stanno così, o se i nostri commerciali non ci forniscono sufficienti informazioni, è sempre il caso di dettagliare il budget (nel peggiore dei casi utilizzando il mix di un periodo precedente, anche se siamo certi che il futuro sarà diverso), così da formalizzare un set di ipotesi verso cui verificare gli scostamenti. 

Il delta volume: quanto ho venduto di cosa?


La definizione di delta volume è la variazione di margine (identificabile solo in valore assoluto) dovuta alla variazione dei volumi di vendita rispetto a quelli di riferimento. Ma solo quando si scende al massimo livello di dettaglio (codice prodotto) il concetto di volume si fa chiaro: pezzi, espressi nell’unità di misura di magazzino.

Analizzare il delta volume di un gruppo di prodotti nel suo complesso richiede di identificare una unità di volume comune a tutti i suoi codici, e questo, a seconda della tipologia di prodotto, può essere più o meno immediato. Nei casi estremi si può sempre ricorrere, per esempio, al peso, ma quando il costo/Kg dei codici prodotto dello stesso gruppo differisce notevolmente si rischia di distorcere l’analisi. Saremmo davvero autorizzati ad affermare che 1 Kg di prodotto che costa 1 euro al Kg “vale” in termini di volume come 1 Kg di un altro prodotto che costa 2 euro al Kg?

Dovendo gestire un “caso estremo”, ossia la coesistenza nello stesso gruppo di prodotti con differente contenuto di valore aggiunto e molto variabili nelle dimensioni , ho optato per una soluzione, probabilmente non ortodossa, ma che si è rivelata molto efficace: usare come misura di quantità il costo (standard) del prodotto. Forse in questo caso, più che di delta volume bisognerebbe parlare di “delta valore” ma in pratica il risultato è lo stesso. 

Il delta mix: la varianza dai mille volti


Il delta mix è la variazione di margine (sia in valore assoluto che percentuale) che deriva dal cambiamento della composizione delle vendite rispetto al riferimento, con spostamento dei volumi tra elementi delle dimensioni analizzate (clienti, prodotti, zone geografiche) con marginalità diversa.

Chiunque abbia avuto a che fare con l’analisi dei margini ha ben chiaro che Il delta volume e il delta mix sono strettamente correlati, e il loro valore è diverso all’interno della stessa analisi a seconda dell’angolazione che si da alla stessa. Se analizziamo i margini guardando solo al livello massimo di dettaglio (prodotto/cliente), troviamo su ogni riga delta mix pari a zero, quindi, riga per riga, non c’è che (ovviamente) varianza di volume. Passando ad analizzare, per esempio il raggruppamento area geografica, il delta mix assume un valore diverso da zero su ogni gruppo e il delta volume cambia di conseguenza, perché la somma delle due varianze deve rimanere la stessa. Analizzando il raggruppamento prodotti il delta mix e il delta volume si ridistribuiranno in modo ancora diverso, e così sarà guardando al totale, che risentirà dell’effetto mix combinato di tutte le dimensioni analizzate.

Un foglio elettronico vale più di mille parole


A supporto dei miei affannosi tentativi di spiegarmi ho allegato un foglio elettronico di esempio, che riprende uno strumento di lavoro implementato in anni passati , utilizzato in una importante realtà multinazionale. Il tutto si basa su una tabella pivot che riprende un database di vendite, costi standard e margini, sia a consuntivo che a budget. Il foglio elettronico va scaricato sul proprio computer per navigare la tabella pivot.

L’esempio si basa su una gerarchia prodotto (gruppo prodotti / codice) e cliente (Area geografica / cliente), i dati sono stati generati in modo pseudocasuale. Per non complicare l’esempio ho omesso problematiche relative al delta cambio, presenti nell’implementazione originale. L’ordine dei campi delle dimensioni di analisi può essere modificato a piacimento, ma non è possibile aggiungere o togliere campi, per preservare il funzionamento delle formule sulla destra.
Mi soffermo sulla formula del delta volume:

Mbdg*(STDact/STDbdg-1) 

dove Mbdg è il margine di budget, STDact è il costo standard a volume consuntivi e STDbdg è il costo standard a volumi di budget. La variazione del volume è misurata sulla variazione del costo standard, come sopra descritto.
Invito chi è interessato a provare diverse chiavi di lettura modificando l’ordine dei campi, ma vorrei sottolineare che la somma delle varianze di volume o mix derivata dalle righe di dettaglio non coincide (e non deve farlo!) con l’analoga varianza sul totale di raggruppamento, come già sottolineato prima e come mostrato qui sotto.



La soluzione mostrata è un esempio di come un’analisi margini può essere implementata con strumenti relativamente semplici senza lasciare soggettività nell’allocazione a una varianza o all’altra. Il Controller può dedicarsi ad attività a valore aggiunto come l’individuazione delle varianze più significative, la loro interpretazione e la relativa comunicazione al management.

domenica 7 luglio 2013

Direct costing nelle aziende manifatturiere: e la valutazione delle rimanenze? Un caso concreto.

Come noto agli addetti ai lavori, il “direct costing” è una metodologia di calcolo dei costi di prodotto, che si differenzia dal più noto e utilizzato “full costing” nel fatto che considera analiticamente nel costo unitario di produzione solo quelle componenti che sono direttamente e oggettivamente riferite all'oggetto del calcolo (nel nostro caso il prodotto) e il cui ammontare totale varia in proporzione al variare della quantità prodotta. Quindi le componenti fisse e indirette del costo semplicemente non vengono riportate ai costi unitari tramite allocazioni o ribaltamenti, ma vengono analizzate solo a livello di centro di costo.
Ci può essere una serie di buoni motivi per adottare questa metodologia: è “lean”, evita la soggettività dei criteri di allocazione dei costi fissi, ci libera definitivamente dall'analisi delle varianze di assorbimento. Ma anche una serie di svantaggi: fornisce una lettura parziale del costo del venduto, mostra ai commerciali un margine “troppo alto”, non è riconosciuta dai principi contabili (ma di questo parleremo tra breve).
Scopo di questo scritto non è comunque né di spiegare la metodologia direct costing (la letteratura in proposito è immensa), né di valutarne pregi e difetti a seconda dei contesti (anche se personalmente sono un fan di questo approccio), bensì di fornire qualche spunto concreto a chi ha deciso di implementare il (o passare al) direct costing in una attività manifatturiera.

E la valutazione delle rimanenze?


Come accennato in precedenza, il direct costing non è una metodologia riconosciuta dai principi contabili né locali né internazionali, quindi le rimanenze devono comunque essere valorizzate includendo una quota di costi fissi (di produzione, di logistica, di approvvigionamento…). Questo genera due conseguenze:
- sarà necessario gestire, oltre al database di costi “direct”, un ulteriore set di dati per valorizzare le rimanenze;
- vi sarà una differenza tra il costo del venduto secondo principi contabili e quello ottenuto applicando il direct costing, dovuta alla differenza tra la quota di costi fissi “sospesa” nelle rimanenze finali e in quelle iniziali. Se ad esempio durante un esercizio il livello delle scorte cresce, una parte dei costi fissi sostenuti nell'esercizio stesso rimane “inglobata” nel valore delle scorte e avrà impatto a conto economico solo negli esercizi successivi. 

Possibili soluzioni: ancora il costo “scomponibile”

Cosa è possibile fare praticamente per superare le difficoltà appena esposte: una soluzione molto semplice (qualora accettata dai revisori esterni) può essere quella di definire una quota di costi fissi (tipicamente in percentuale), calcolata preventivamente ed eventualmente aggiornata a consuntivo, che viene applicata a ogni costo unitario calcolato secondo direct costing al solo fine di valorizzare le scorte a fini IFRS o local GAAP. Dato che questa allocazione non è utilizzata a fini gestionali o per l’analisi delle varianze, meglio tenerla la più semplice possibile, fatta salva la coerenza con i principi contabili.
Mi soffermerei però sulla soluzione che mi è capitato di utilizzare, che si basa sulla segmentazione del costo di prodotto in componenti significative, che possono essere considerate o meno a seconda delle necessità.
Mi spiego meglio: l’idea è calcolare analiticamente e separatamente il costo variabile e quello fisso per ogni singolo prodotto, per poi rimetterli insieme quando necessario. Questo significa mantenere dei tassi orari per centro di costo e delle modalità di allocazione tipiche del full costing, ma avere un calcolo autonomo per la parte fissa del costo del prodotto (per ordine di produzione e, ad esempio, la relativa media ponderata per la valutazione dei magazzini). Questa modalità è particolarmente valida per chi proviene da un approccio full costing già implementato, perché permette di mantenere la continuità con i valori di magazzino del passato e smorza i “traumi” organizzativi dovuti al passaggio da un metodo all'altro.

Riconciliare il costo del venduto

Nell'utilizzo del direct costing l’impossibilità di mantenere l’allineamento tra i “management accounts” a costi variabili e l'informativa esterna è cosa molto fastidiosa per il controller, perché il parametro per il management quasi sempre rimane il secondo.
Il disallineamento, come descritto in precedenza, è dato dalla differenza tra la quota di costi fissi nelle rimanenze finali e la stessa quantità nello stock iniziale. Se tale valore è positivo è equivale a un ricavo.
Le soluzioni esposte permettono quantomeno di tracciare e segregare questo disallineamento mantenendo coerenza su tutti gli altri dati. Se si scegliesse infatti di avere due calcoli indipendenti per il direct costing e per le scorte a full, la parte variabile dei due calcoli potrebbe disallinearsi per mille motivi e diventerebbe molto difficile accorgersene.
Avendo segregato e tracciato il disallineamento, e conoscendone il dettaglio, la modalità che io ho preferito è stata di introdurlo come una posta specifica nel conto economico gestionale, come nell’esempio ipersemplificato qui riportato. 
 L’andamento di questa posta, che a budget (a meno di situazioni particolari) ha valore nullo, può essere analizzato come una varianza sulla base dei dati disponibili.

Considerazioni finali

Il passaggio al direct costing è gestibile, con alcune accortezze, e quando mi è capitato di attuarlo non ho avuto particolari contraccolpi organizzativi, pur beneficiando di una notevole semplificazione e intuitività nel leggere il business. Quello che mi sento di consigliare comunque è un accurato training all'area commerciale sul cambiamento del margine di riferimento da margine industriale a margine di contribuzione, che è normalmente molto più alto in percentuale del primo. Questo per evitare che l’incremento puramente tecnico del margine di riferimento si traduca in una percezione di maggiore redditività e, di conseguenza porti a una riduzione dei prezzi.
Ho riferito questi pochi concetti a una società non facente parte di un gruppo per evitare di complicare troppo il quadro. In realtà mi sono trovato ad applicarli a un gruppo multinazionale, ovviamente  con una soluzione più articolata, che potrà essere argomento di approfondimenti successivi.