Come noto agli addetti ai lavori, il “direct
costing” è una metodologia di calcolo dei costi di prodotto, che si differenzia
dal più noto e utilizzato “full costing” nel fatto che considera analiticamente
nel costo unitario di produzione solo quelle componenti che sono direttamente e
oggettivamente riferite all'oggetto del calcolo (nel nostro caso il prodotto) e
il cui ammontare totale varia in proporzione al variare della quantità
prodotta. Quindi le componenti fisse e indirette del costo semplicemente non
vengono riportate ai costi unitari tramite allocazioni o ribaltamenti, ma
vengono analizzate solo a livello di centro di costo.
Ci può essere una serie di buoni motivi per
adottare questa metodologia: è “lean”, evita la soggettività dei criteri di
allocazione dei costi fissi, ci libera definitivamente dall'analisi delle
varianze di assorbimento. Ma anche una serie di svantaggi: fornisce una lettura
parziale del costo del venduto, mostra ai commerciali un margine “troppo alto”,
non è riconosciuta dai principi contabili (ma di questo parleremo tra breve).
Scopo di questo scritto non è comunque né di
spiegare la metodologia direct costing (la letteratura in proposito è immensa),
né di valutarne pregi e difetti a seconda dei contesti (anche se personalmente
sono un fan di questo approccio), bensì di fornire qualche spunto concreto a
chi ha deciso di implementare il (o passare al) direct costing in una attività
manifatturiera.
E la valutazione delle rimanenze?
Come accennato in
precedenza, il direct costing non è una metodologia riconosciuta dai principi
contabili né locali né internazionali, quindi le rimanenze devono comunque essere
valorizzate includendo una quota di costi fissi (di produzione, di logistica,
di approvvigionamento…). Questo genera due conseguenze:
- sarà necessario gestire, oltre al database
di costi “direct”, un ulteriore set di dati per valorizzare le rimanenze;
- vi sarà una differenza tra il costo del
venduto secondo principi contabili e quello ottenuto applicando il direct costing,
dovuta alla differenza tra la quota di costi fissi “sospesa” nelle rimanenze
finali e in quelle iniziali. Se ad esempio durante un esercizio il livello
delle scorte cresce, una parte dei costi fissi sostenuti nell'esercizio stesso rimane
“inglobata” nel valore delle scorte e avrà impatto a conto economico solo negli
esercizi successivi.
Possibili soluzioni: ancora il costo “scomponibile”
Cosa è possibile fare
praticamente per superare le difficoltà appena esposte: una soluzione molto
semplice (qualora accettata dai revisori esterni) può essere quella di definire
una quota di costi fissi (tipicamente in percentuale), calcolata
preventivamente ed eventualmente aggiornata a consuntivo, che viene applicata a
ogni costo unitario calcolato secondo direct costing al solo fine di
valorizzare le scorte a fini IFRS o local GAAP. Dato che questa allocazione non
è utilizzata a fini gestionali o per l’analisi delle varianze, meglio tenerla
la più semplice possibile, fatta salva la coerenza con i principi contabili.
Mi soffermerei però
sulla soluzione che mi è capitato di utilizzare, che si basa sulla
segmentazione del costo di prodotto in componenti significative, che possono
essere considerate o meno a seconda delle necessità.
Mi spiego meglio: l’idea
è calcolare analiticamente e separatamente il costo variabile e quello fisso
per ogni singolo prodotto, per poi rimetterli insieme quando necessario. Questo
significa mantenere dei tassi orari per centro di costo e delle modalità di
allocazione tipiche del full costing, ma avere un calcolo autonomo per la parte
fissa del costo del prodotto (per ordine di produzione e, ad esempio, la
relativa media ponderata per la valutazione dei magazzini). Questa modalità è particolarmente
valida per chi proviene da un approccio full costing già implementato, perché
permette di mantenere la continuità con i valori di magazzino del passato e
smorza i “traumi” organizzativi dovuti al passaggio da un metodo all'altro.
Riconciliare il costo del venduto
Nell'utilizzo del direct costing l’impossibilità
di mantenere l’allineamento tra i “management accounts” a costi variabili e l'informativa esterna è cosa molto fastidiosa per il controller, perché il
parametro per il management quasi sempre rimane il secondo.
Il disallineamento, come descritto in precedenza,
è dato dalla differenza tra la quota di costi fissi nelle rimanenze finali e la
stessa quantità nello stock iniziale. Se tale valore è positivo è equivale a un
ricavo.
Le soluzioni esposte permettono quantomeno di
tracciare e segregare questo disallineamento mantenendo coerenza su tutti gli
altri dati. Se si scegliesse infatti di avere due calcoli indipendenti per il
direct costing e per le scorte a full, la parte variabile dei due calcoli
potrebbe disallinearsi per mille motivi e diventerebbe molto difficile
accorgersene.
Avendo segregato e tracciato il disallineamento,
e conoscendone il dettaglio, la modalità che io ho preferito è stata di
introdurlo come una posta specifica nel conto economico gestionale, come
nell’esempio ipersemplificato qui riportato.
L’andamento di questa posta, che a
budget (a meno di situazioni particolari) ha valore nullo, può essere
analizzato come una varianza sulla base dei dati disponibili.
Considerazioni finali
Il passaggio al direct costing è gestibile, con
alcune accortezze, e quando mi è capitato di attuarlo non ho avuto particolari
contraccolpi organizzativi, pur beneficiando di una notevole semplificazione e
intuitività nel leggere il business. Quello che mi sento di consigliare
comunque è un accurato training all'area commerciale sul cambiamento del
margine di riferimento da margine industriale a margine di contribuzione, che è
normalmente molto più alto in percentuale del primo. Questo per evitare che
l’incremento puramente tecnico del margine di riferimento si traduca in una percezione
di maggiore redditività e, di conseguenza porti a una riduzione dei prezzi.
Ho riferito questi pochi concetti a una società
non facente parte di un gruppo per evitare di complicare troppo il quadro. In
realtà mi sono trovato ad applicarli a un gruppo multinazionale,
ovviamente con una soluzione più
articolata, che potrà essere argomento di approfondimenti successivi.
Come noto agli addetti ai lavori, il “direct
costing” è una metodologia di calcolo dei costi di prodotto, che si differenzia
dal più noto e utilizzato “full costing” nel fatto che considera analiticamente
nel costo unitario di produzione solo quelle componenti che sono direttamente e
oggettivamente riferite all'oggetto del calcolo (nel nostro caso il prodotto) e
il cui ammontare totale varia in proporzione al variare della quantità
prodotta. Quindi le componenti fisse e indirette del costo semplicemente non
vengono riportate ai costi unitari tramite allocazioni o ribaltamenti, ma
vengono analizzate solo a livello di centro di costo.
Ci può essere una serie di buoni motivi per
adottare questa metodologia: è “lean”, evita la soggettività dei criteri di
allocazione dei costi fissi, ci libera definitivamente dall'analisi delle
varianze di assorbimento. Ma anche una serie di svantaggi: fornisce una lettura
parziale del costo del venduto, mostra ai commerciali un margine “troppo alto”,
non è riconosciuta dai principi contabili (ma di questo parleremo tra breve).
Scopo di questo scritto non è comunque né di
spiegare la metodologia direct costing (la letteratura in proposito è immensa),
né di valutarne pregi e difetti a seconda dei contesti (anche se personalmente
sono un fan di questo approccio), bensì di fornire qualche spunto concreto a
chi ha deciso di implementare il (o passare al) direct costing in una attività
manifatturiera.
E la valutazione delle rimanenze?
Come accennato in
precedenza, il direct costing non è una metodologia riconosciuta dai principi
contabili né locali né internazionali, quindi le rimanenze devono comunque essere
valorizzate includendo una quota di costi fissi (di produzione, di logistica,
di approvvigionamento…). Questo genera due conseguenze:
- sarà necessario gestire, oltre al database
di costi “direct”, un ulteriore set di dati per valorizzare le rimanenze;
- vi sarà una differenza tra il costo del
venduto secondo principi contabili e quello ottenuto applicando il direct costing,
dovuta alla differenza tra la quota di costi fissi “sospesa” nelle rimanenze
finali e in quelle iniziali. Se ad esempio durante un esercizio il livello
delle scorte cresce, una parte dei costi fissi sostenuti nell'esercizio stesso rimane
“inglobata” nel valore delle scorte e avrà impatto a conto economico solo negli
esercizi successivi. Possibili soluzioni: ancora il costo “scomponibile”
Cosa è possibile fare
praticamente per superare le difficoltà appena esposte: una soluzione molto
semplice (qualora accettata dai revisori esterni) può essere quella di definire
una quota di costi fissi (tipicamente in percentuale), calcolata
preventivamente ed eventualmente aggiornata a consuntivo, che viene applicata a
ogni costo unitario calcolato secondo direct costing al solo fine di
valorizzare le scorte a fini IFRS o local GAAP. Dato che questa allocazione non
è utilizzata a fini gestionali o per l’analisi delle varianze, meglio tenerla
la più semplice possibile, fatta salva la coerenza con i principi contabili.
Mi soffermerei però
sulla soluzione che mi è capitato di utilizzare, che si basa sulla
segmentazione del costo di prodotto in componenti significative, che possono
essere considerate o meno a seconda delle necessità.
Mi spiego meglio: l’idea
è calcolare analiticamente e separatamente il costo variabile e quello fisso
per ogni singolo prodotto, per poi rimetterli insieme quando necessario. Questo
significa mantenere dei tassi orari per centro di costo e delle modalità di
allocazione tipiche del full costing, ma avere un calcolo autonomo per la parte
fissa del costo del prodotto (per ordine di produzione e, ad esempio, la
relativa media ponderata per la valutazione dei magazzini). Questa modalità è particolarmente
valida per chi proviene da un approccio full costing già implementato, perché
permette di mantenere la continuità con i valori di magazzino del passato e
smorza i “traumi” organizzativi dovuti al passaggio da un metodo all'altro.
Riconciliare il costo del venduto
Riconciliare il costo del venduto
Nell'utilizzo del direct costing l’impossibilità
di mantenere l’allineamento tra i “management accounts” a costi variabili e l'informativa esterna è cosa molto fastidiosa per il controller, perché il
parametro per il management quasi sempre rimane il secondo.
Il disallineamento, come descritto in precedenza,
è dato dalla differenza tra la quota di costi fissi nelle rimanenze finali e la
stessa quantità nello stock iniziale. Se tale valore è positivo è equivale a un
ricavo.
Le soluzioni esposte permettono quantomeno di
tracciare e segregare questo disallineamento mantenendo coerenza su tutti gli
altri dati. Se si scegliesse infatti di avere due calcoli indipendenti per il
direct costing e per le scorte a full, la parte variabile dei due calcoli
potrebbe disallinearsi per mille motivi e diventerebbe molto difficile
accorgersene.
Avendo segregato e tracciato il disallineamento,
e conoscendone il dettaglio, la modalità che io ho preferito è stata di
introdurlo come una posta specifica nel conto economico gestionale, come
nell’esempio ipersemplificato qui riportato.
L’andamento di questa posta, che a
budget (a meno di situazioni particolari) ha valore nullo, può essere
analizzato come una varianza sulla base dei dati disponibili.
Considerazioni finali
Considerazioni finali
Il passaggio al direct costing è gestibile, con alcune accortezze, e quando mi è capitato di attuarlo non ho avuto particolari contraccolpi organizzativi, pur beneficiando di una notevole semplificazione e intuitività nel leggere il business. Quello che mi sento di consigliare comunque è un accurato training all'area commerciale sul cambiamento del margine di riferimento da margine industriale a margine di contribuzione, che è normalmente molto più alto in percentuale del primo. Questo per evitare che l’incremento puramente tecnico del margine di riferimento si traduca in una percezione di maggiore redditività e, di conseguenza porti a una riduzione dei prezzi.
Ho riferito questi pochi concetti a una società
non facente parte di un gruppo per evitare di complicare troppo il quadro. In
realtà mi sono trovato ad applicarli a un gruppo multinazionale,
ovviamente con una soluzione più
articolata, che potrà essere argomento di approfondimenti successivi.
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