giovedì 7 novembre 2013

Architettura modulare e controllo di gestione (2): il configuratore e la sua utilità

Non è difficile imbattersi navigando il web in configuratori di prodotto, specialmente se si intende acquistare un’automobile o un computer. Questi strumenti consentono al cliente di decidere direttamente le caratteristiche e le personalizzazioni preferite, per arrivare a un prodotto il più possibile “su misura”. Il configuratore nasce come strumento commerciale, ma  l’adozione di un’architettura di prodotto modulare, tra le altre opportunità, permette di  estendere le sue funzionalità e il suo utilizzo anche all’area tecnica e, perché no, al controllo di gestione.

Cos’è un configuratore (molto in breve)


Il configuratore è  un software che permette di tradurre le esigenze del cliente, identificate attraverso la risposta a domande specifiche, in una versione del prodotto che è la più adatta a soddisfarle tenendo conto dei vincoli tecnici. In caso di architettura di prodotto modulare il configuratore, dopo avere acquisito il bisogno del cliente, si trova a disporre di tutte le informazioni necessarie a generare anche una combinazione di varianti di modulo che di fatto è la distinta base del prodotto desiderato. I vantaggi derivanti dall’utilizzo di un configuratore ben progettato derivano in primo luogo dalla eliminazione delle incertezze legate alla percezione delle esigenze del cliente, perché:
-          Impone al commerciale, e di conseguenza al cliente, di raccogliere preventivamente tutte le informazioni strettamente necessarie a identificare il prodotto giusto;
-          Impedisce l’offerta di configurazioni non realizzabili tecnicamente
-          Evita la soggettività del tecnico, assicurando di identificare il prodotto con le spcifiche minime per soddisfare l’esigenza.
Ulteriori vantaggi sono connessi alla disponibilità immediata della struttura di prodotto definitiva, con conseguente snellimento della messa in produzione.

Cosa c’entra Il configuratore con il controllo di gestione?


Il primo impiego evidente del configuratore o dei suoi risultati è quello della definizione del costo a preventivo del prodotto finito. Nel momento in cui l’offerta al cliente viene finalizzata il configuratore è in grado di fornire l’elenco delle varianti di modulo che compongono il prodotto. Si tratta quindi solo di sommare i costi (nelle configurazioni standard e/o evolutivo) delle varianti di modulo in questione, e aggiungere un costo di assemblaggio di tali componenti tra di loro. Quest’ultimo potrebbe essere stimato dal configuratore stesso con uno specifico algoritmo, e anche il calcolo del costo totale potrebbe essere delegato al motore di configurazione, dopo aver fornito allo stesso l’archivio dei costi di tutte le varianti di modulo, con il risultato di avere in tempo reale nel corso del processo di configurazione i dati di costo, prezzo e conseguentemente margine. Può essere particolarmente utile avere immediata evidenza del costo evolutivo del prodotto finito, così da disporre già in fase di offerta della stima più aggiornata del costo del prodotto e poter quindi prendere le migliori decisioni di pricing.
Un altro potenziale e meno evidente vantaggio può essere identificato nella definizione del budget. Si può infatti immaginare di usare il motore di configurazione per definire una serie di configurazioni a cura del commerciale, non riferite a specifiche richieste di clienti identificati, bensì alle attese di budget. Nel caso non si disponga di previsioni così dettagliate si potrebbero definire delle configurazioni “tipo”, in grado di riflettere la segmentazione attesa della domanda, a cui attribuire dei volumi.
Le configurazioni di budget, oltre a essere automaticamente valorizzate in termini di prezzi e costi, fornirebbero senza sforzo il piano di produzione di budget a livello di singola variante di modulo, già pronto per alimentare gli MRP di budget di stabilimento e i budget degli acquisti per le varianti di modulo definite “buy”. Inoltre il livello di dettaglio disponibile sui dati di budget permetterebbe un’adeguata analisi delle varianze, anche di mix.

giovedì 17 ottobre 2013

Architettura modulare e controllo di gestione (1)

 Negli ambiti in cui la vicinanza alle esigenze del cliente richiede la personalizzazione spinta del prodotto il lotto di produzione è sempre unitario e la probabilità di produrre due articoli identici è molto bassa, se non nulla, in funzione della gamma di personalizzazioni disponibili. In questi casi il classico modello di produzione di serie non si applica, quindi tutto il relativo corredo di strumenti di controllo va riletto di conseguenza.  In particolare le logiche del costo standard perdono di efficacia, perché viene a mancare la ripetitività delle attività e delle produzioni. Non ha senso (e comunque è molto oneroso) definire un costo di riferimento per utilizzarlo una volta sola in confronto all’effettivo. 
In questo post vorrei concentrarmi (premetto, da non addetto ai lavori) sulla modalità di progettazione che si basa sull’architettura modulare di prodotto, che permette di conciliare una produzione in serie di semilavorati e componenti con una produzione a lotto 1 di prodotti finiti. L’obiettivo è di enfatizzare i vantaggi che ne possono derivarne in termini di controllo,  e le modalità con cui  un approccio  a costi standard e varianze possa essere concretamente applicato in questo caso.

Progettazione modulare


A differenza della progettazione integrata, dove ogni nuovo prodotto viene riprogettato da zero ottimizzandolo nel suo complesso, La progettazione modulare prevede:
-           una prima fase di ridefinizione dell’architettura del prodotto, tramite scomposizione dello stesso in parti (moduli) nelle quali risiedono le  funzionalità;
-          una fase di progettazione di interfacce standardizzate che collegheranno i vari moduli,  che va fatta una sola volta all’inizio. 
-          A questo punto la progettazione di ogni modulo  sarà indipendente dagli altri, e potrà articolarsi in una serie di varianti di modulo  intercambiabili, che permetteranno la configurazione del prodotto.  Con un numero relativamente piccolo di varianti di modulo si può ottenere  un numero elevatissimo di configurazioni di prodotto finito
Non sono esperto di sviluppo prodotto, e non è mio obiettivo spiegare nei dettagli cos’è l’architettura modulare. Non è difficile reperire ulteriori informazioni in rete, io consiglio questo articolo di Maurizio Scabbia.  Comunque, per rendere l’idea, uso come esempio il prodotto modulare per eccellenza: il computer desktop.  I moduli identificano le funzionalità, es. Hard disk  per la conservazione dei dati in locale, alimentatore per la fornitura di energia, CPU per effettuare il calcolo ecc…
I vari moduli sono collegati tra di loro attraverso interfacce standardizzate (la stessa motherboard è un modulo  la cui principale funzionalità è tenere insieme tutti gli altri tramite interfacce standardizzate). La possibilità di configurare un PC sta nella disponibilità di varianti per ogni modulo, es. il modulo hard disk può avere diverse varianti in funzione della capienza e della velocità di rotazione, e così tutti gli altri.

Una rivoluzione: ne vale la pena?


Oltre che nel settore dell’informatica,  l’approccio modulare è ampiamente diffuso  principalmente nell’industria automobilistica, dei veicoli commerciali, e in generale laddove ci sono  grandi volumi in gioco. Non lo è altrettanto in settori  che operano  su commessa (es. produzione di macchinari industriali). 
Convertire un’azienda  all’architettura di prodotto modulare  non è assolutamente semplice. Bisogna considerare che :
-          L’adozione delle logiche modulari, specialmente per aziende che attuano una progettazione integrata e operano a commessa,  è una vera rivoluzione che porta un cambio culturale praticamente in tutte le aree aziendali.
-          Lo sforzo iniziale di riprogettazione e revisione dei processi aziendali connessi è molto importante.
-          Se si escludono i benefici da  economie di scala il prodotto modulare è più costoso di quello progettato in modo integrato,  per assicurarne la versatilità. Se la progettazione non è perfetta (con conseguente proliferazione delle varianti di modulo  con lotti di produzione ridotti)  si rischia di perdere i benefici e avere solo costi aggiuntivi. 
Le aziende che, nonostante le difficoltà, adottano questo approccio si vedono ripagare sotto diversi aspetti::
-          In progettazione. Non è necessario riprogettare ogni volta tutto il prodotto solo per seguire l’esigenza del cliente. Inoltre si può concentrare lo sforzo di innovazione sui moduli più critici, mantenendo gli altri stabili e puntando su questi alla riduzione del costo.
-          In produzione, dove si smette di produrre un pezzo alla volta, con le varianti di modulo che possono essere prodotte in lotti significativi, e si ottengono importanti economie di scala. Banalmente, se il lotto di produzione passa da 1 a 10 pezzi, l’incidenza del costo di setup per pezzo cala del 90%.
-          Negli acquisti, dove la ridotta variabilità delle specifiche e dei disegni permetterà di negoziare anche qui a lotti e non pezzo per pezzo.
Concentrandosi sugli aspetti di controllo di gestione, il principale beneficio di un approccio modulare al prodotto risiede nella possibilità di calcolare agevolmente costi di prodotto a preventivo  e di applicare le consuete metodologie di analisi delle varianze,  invece di imbarcarsi in faticose quanto soggettive preventivazioni di prodotti sempre diversi. Chi ha dimestichezza con aziende che operano su commessa sa quanto questi temi siano sentiti.

Calcolo costi preventivi e analisi delle varianze


Se un prodotto è ben progettato seguendo i principi della modularità, il numero delle varianti di modulo disponibili sarà gestibile,  e sarà possibile calcolare il costo a preventivo di ognuna di esse.  Tali costi saranno utilizzati per costruire il costo preventivo del prodotto finito solo quando necessario, ossia  quando verrà ricevuto un ordine con la sua specifica configurazione di prodotto.  A quel punto si tratterà di sommare il costo delle varianti di modulo utilizzate nella configurazione più il costo di trasformazione a livello 0 della distinta, ossia il costo di assemblaggio delle relative varianti di modulo tra di loro. Quest’ultima informazione sarà l’unica che richiederà un calcolo specifico per ogni prodotto, sulla base dei tempi ciclo definiti di volta in volta, e sulla quale si potrà fare un confronto con l’effettivo.
Per il resto, l’analisi delle varianze sarà possibile solo a livello di variante di modulo, dove peraltro saranno concentrati gli scostamenti più rilevanti, e potrà essere impostata anche attraverso  i diversi stadi di costo illustrati nel precedente post  Il controllo economico della produzione in contesti dinamici

Evoluzione ed innovazione prodotto


Rimanendo nel tema del post di cui sopra, è possibile anche monitorare il costo evolutivo del prodotto  a livello di variante di modulo.  Anzi,  l’approccio modulare fornisce l’ulteriore vantaggio di agevolare il collegamento tra codici predecessori e successori. Mi spiego meglio: ogni variante di modulo è legata in uno specifico momento ad un codice di componente. Se tale componente subisce una variazione  che non ne modifica le funzionalità (quindi solo per risparmio costi o miglioramento qualità) ma comporta un cambio di codice, il nuovo codice sarà da quel momento in avanti legato alla variante di modulo in questione.  L’analisi dell’evoluzione del relativo costo risulterà così più immediata.
La vera e propria innovazione di prodotto (quella che porta nuove funzionalità o migliori performances) passerà invece attraverso la creazione di nuove varianti di modulo che si affiancheranno o sostituiranno quelle esistenti e avranno prezzo e margine indipendenti.

Continua….


Ho avuto l’opportunità di lavorare alla definizione di un processo di costing per una produzione su commessa seguendo logiche modulari,  e ho potuto apprezzare le enormi potenzialità che questa modalità può esprimere. Con queste brevi note ho solo scalfito la superficie di un tema molto più vasto, che ha il suo cuore in discipline diverse dal controllo di gestione, e sul quale mi riservo di tornare  per ulteriori spunti di riflessione.  

giovedì 26 settembre 2013

Il valore del magazzino e la misura della performance aziendale

Ho già evidenziato nel post precedente l’opportunità di valutare le scorte a costo standard per una rigorosa e non troppo complessa analisi delle varianze industriali.  E’ altresì evidente che tale tipo di valorizzazione spesso non sia accettabile dal punto di vista dei principi contabili,  sia internazionali che locali e che quindi una valorizzazione agganciata ai costi effettivi sia comunque necessaria. Se si aggiunge il fatto che la maggior parte delle grandi aziende sia obbligata (da casa madre, da regole legate alla quotazione in borsa o semplicemente dalla volontà del management) a chiusure contabili infrannuali, l’argomento non va a mio avviso sottovalutato.

Le diverse modalità di valutazione: impatto sull’analisi della performance


Il risultato economico, e con esso le misura di performance rispetto al budget, dipende in una certa misura, e nel breve/medio periodo,  dalla modalità di valutazione delle rimanenze. In caso di valorizzazione a standard,  qualsiasi varianza ha ovviamente impatto sul conto economico nel momento stesso in cui essa si manifesta: per le varianze di  acquisto all’atto dell’entrata a magazzino (con eventuale correzione al ricevimento della fattura di acquisto),  per le varianze di trasformazione  alla chiusura dell’ordine di produzione.  Le funzioni aziendali responsabili delle varianze sono in grado di legare facilmente le stesse con i fatti che le hanno originate, quindi possono spiegarle e attuare i necessari interventi correttivi.
In caso di valorizzazione a costi effettivi le varianze sono  “diluite” a magazzino, impattando il conto economico solo quando il prodotto finito in cui le varianze di acquisto e trasformazione sono contenute viene venduto. Il rilascio di queste varianze avviene gradualmente e , in funzione delle specificità del business e della modalità di valutazione, anche fino a svariati mesi dopo il loro verificarsi.
A titolo di esempio, in caso di forti aumenti dei prezzi dei materiali, non previsti dal budget, la varianza sfavorevole potrebbe avere un impatto a conto economico limitato o nullo nel primo mese di aumento, nel caso in cui il prodotto venduto sia stato fabbricato precedentemente all’aumento del prezzo di acquisto. L’impatto crescerebbe progressivamente con il passare del tempo. In una realtà produttiva (particolarmente in caso di distinta base a molti livelli) tracciare il modo in cui il rilascio avviene è estremamente  complicato, prevederlo virtualmente impossibile. 
Tengo a sottolineare che l’effetto sopra descritto è puramente contabile e non ha chiaramente alcun effetto sulla performance aziendale di lungo periodo . Non faremo andare meglio o peggio un’azienda modificando il modo di valutare le scorte. D’altro canto, il risultato di esercizio rilevante all’esterno è quello che deriva dalla valorizzazione a effettivo. E’ quindi necessario trovare una modalità per tracciare efficacemente la performance e nello stesso tempo riconciliare i conti economici “statutory”.

Far convivere le due modalità


L’esperienza sul campo su questo tema mi ha portato a provare diverse strategie: quella che ho personalmente trovato più soddisfacente è il “doppio binario”: da una parte impostare nell’ERP aziendale una modalità di valutazione basata sui costi effettivi (tipicamente un costo medio ponderato, adatto sia a requisiti locali italiani che IFRS), dall’altra impostare, attraverso una personalizzazione, l’analisi delle performances  su una valutazione a standard delle rimanenze.
A rigor di logica, per l’impostazione di un sistema di controllo non è necessario valorizzare i magazzini, bensì la variazione di magazzino nel periodo in esame, che altro non è che la somma algebrica di tutte le transazioni avvenute in quel periodo.  Ciò  è il sottoprodotto della valorizzazione a standard di dettaglio necessaria per l’impostazione di un’analisi varianze strutturata.
Il risultato della suddetta analisi non è riconciliato con il conto economico, perché manca ancora l’effetto economico della dinamica delle varianze “inglobate” nel magazzino. Tale informazione si ottiene confrontando la variazione di magazzino calcolata a standard e quella relativa alla valorizzazione ad effettivo (rimanenze finali meno rimanenze iniziali). E’ a tutti gli effetti una varianza, ma non ha molto senso assegnare una responsabilità per essa.

Pianificare l’effetto del valore delle scorte


Come accennavo in precedenza, l’effetto della diluizione delle varianze nel valore di magazzino è veramente complesso da calcolare e da prevedere. E’ comunque necessario almeno farsene un’idea in fase di budget, in particolare se si è in presenza di forti variazioni dei prezzi di acquisto e di bassa rotazione del magazzino.
Lungi da me l’idea di consigliare un calcolo analitico, vorrei suggerire una modalità semplice ed empirica. L’idea è raggruppare gli articoli a magazzino secondo classi le più possibili omogenee dal punto di vista della variazione attesa di prezzo e assegnare ad ognuna un indice di rotazione e un indice di prezzo atteso mensilizzato. Partendo da un valore di rimanenza iniziale si può provare a proiettare in modo grezzo l’effetto di una variazione di prezzo nei vari mesi, come proposto nel foglio di lavoro qui sotto (copia del foglio è scaricabile qui).



L’esempio si basa su una valorizzazione a costo medio ponderato su base mensile (rimanenza inizale del mese mediata con le entrate del mese stesso),  il valore delle scorte è mantenuto costante per semplicità, ma si può modificare intervenendo sul foglio di lavoro, come tutte le celle in giallo.  
L’indice di variazione del prezzo per i prodotti finiti è la risultante degli aumenti attesi sulle materie prime più il ritardo indotto dalla permanenza a magazzino. Stimarlo richiede un bello sforzo di fantasia, si può provare ad utilizzare l’indice medio ottenuto applicando il metodo di cui sopra sulle varie classi di materie prime  e applicarlo in funzione del loro peso medio all’interno del prodotto finito in esame.
Le differenze di valorizzazione così ottenute potrebbero essere introdotte nel processo di budget come varianza pianificata  “lumpsum” . Per me del tutto sconsigliabile introdurle come correzione nei singoli costi standard.

Conclusioni


La legittima richiesta del management al controller è di conoscere i motivi per cui il risultato (comunicato all’esterno) non è stato coerente con il budget. Compito del controller è secondo me comunicare efficacemente queste informazioni focalizzandosi su reali fatti di gestione e sulle possibili azioni di miglioramento, e informando su effetti contabili, peraltro ineliminabili, quantificandone l’effetto sui conti. Gli spunti sopra riportati sono orientati in questo senso. Mi rendo conto che l’approccio potrebbe non essere condiviso, e sarà per me molto interessante conoscere opinioni e strategie alternative. 

lunedì 9 settembre 2013

Il controllo economico della produzione in contesti dinamici

Il controllo della performance industriale non è difficile  se si ha a che fare con prodotti stabili, condizioni di domanda costante e una capacità produttiva adeguata e ben dislocata sulle zone da servire.  In questo caso è sufficiente identificare il miglior processo produttivo, applicarlo costantemente e limitarsi a misurare gli scostamenti  di efficienza tra questo e l’effettivo.
Molto spesso questo scenario ideale non si verifica. I prodotti e i processi evolvono sempre più velocemente, alla ricerca di efficienza e qualità, il footprint industriale non riesce a stare dietro alle fluttuazioni  della domanda nelle varie aree geografiche, la flessibilità passa spesso attraverso l’outsourcing parziale di alcune lavorazioni o della stessa produzione.
In contesti come questi, tutt’altro che infrequenti nel nostro panorama industriale, saranno disponibili diverse alternative di approvvigionamento per ciascun prodotto, ognuna caratterizzata da un suo costo. L’utilizzo di un’alternativa rispetto alla modalità preferenziale (per intenderci, quella su cui è stato calcolato il costo standard) porterà ad una varianza, non strettamente dovuta a utilizzo improprio delle risorse, ma comunque rilevante dal punto di vista economico.
Inoltre, l’attività di evoluzione prodotto porterà a variazioni al processo produttivo  preferenziale dopo il congelamento della modalità standard, e anche queste variazioni andranno monitorate per valutarne l’efficacia.
 Avere sotto controllo l’evoluzione del prodotto e l’utilizzo delle alternative di produzione e, di conseguenza, responsabilizzare le aree aziendali che presiedono tali attività, è essenziale per preservare la redditività del business. 

Monitorare l’evoluzione del prodotto


In funzione del processo di evoluzione prodotto presente in ogni azienda, le modifiche applicate al prodotto,  a parità di funzionalità dello stesso,  possono portare o meno ad un cambio codice. Se il codice non cambia, le modifiche ai dati tecnici del prodotto (distinta, ciclo, lotto standard, scelta make/buy)  saranno attivate a partire da una certa data e diventeranno da quel momento la modalità di approvvigionamento preferenziale, senza però modificare lo standard.
Se le modifiche richiedono un cambio codice, come già esposto nel precedente post  “Dare un costo ai prodotti nuovi”,  tale codice dovrebbe ereditare lo standard del codice che ha sostituito, sia in termini di dati tecnici che di costo.  Questo per evitare che l’impatto economico delle modifiche sia considerato una varianza di mix invece che industriale.

Varianze derivanti da alternative


L’utilizzo di alternative di approvvigionamento rispetto allo standard  genera varianze di diverso tipo, alcune più semplici da monitorare (ad esempio lo spostamento di una lavorazione da un centro di costo ad un altro), altre meno.  Ad esempio:
  • make / buy (il prodotto può essere fabbricato internamente o acquistato)
  • outsourcing  di singole lavorazioni, che possono essere fatte internamente o in conto lavoro
  • stabilimenti alternativi nella stessa società
  • stabilimenti alternativi in altre società del gruppo
le difficoltà derivano dalla necessità di confrontare informazioni eterogenee e organizzate diversamente, in particolare dati derivanti da ordini di produzione e da documenti d’acquisto. Un discorso a parte va dedicato all’ultimo caso, la cui varianza non può essere calcolata a livello di singola società, anzi, a quel livello è del tutto fuorviante. Ipotizzando infatti di spostare la produzione di un articolo dallo stabilimento A a quello B situato all’estero, un’eventuale analisi condotta dalla società A porterebbe a confrontare un costo di produzione a standard con un transfer price, ovviamente più alto del costo di produzione a standard dello stabilimento B. Sullo stabilimento B lo spostamento darebbe solo una varianza di volume, e la somma delle varianze non fornirebbe  l’impatto economico sul gruppo.

Spunti operativi


La modalità di analisi degli scostamenti a cui vorrei accennare, e che ho utilizzato sul campo trovandola  molto efficace, va oltre il classico approccio standard vs consuntivo. L’idea è di tracciare un “percorso”  dallo standard al consuntivo attraverso differenti “stadi” del costo di prodotto utili a identificare i motivi di scostamento e le relative responsabilità, che riporto di seguito:

  • costo standard: costruito utilizzando dati tecnici e ipotesi di approvvigionamento identificati come preferenziali e congelati in fase di preparazione del budget annuale. Come da dottrina il costo standard rimane fisso per tutto l’anno di riferimento. Vorrei sottolineare l’importanza di un piano di produzione di budget realistico, E’ importante richiedere  alla pianificazione operativa uno sforzo in fase di budget per definire le allocazioni preferenziali in modo da bilanciare il carico di lavoro sulla capacità disponibile. Tuttavia per quanto possibile sconsiglio, con l’eccezione della definizione dei prezzi di acquisto, di calcolare il costo standard a livello di codice come media di diverse modalità (es. 40% make, 60% buy),  per evitare le complessità connesse all’analisi delle varianze su questo tipo di ipotesi.
  • costo “evolutivo”: costruito utilizzando dati tecnici e ipotesi di approvvigionamento identificati come preferenziali per il periodo infrannuale che si sta analizzando. Nella mia esperienza, dovendo confrontarmi con un ufficio tecnico molto attivo nelle modifiche, ho congelato  questo dato con cadenza mensile (in coincidenza con la chiusura gestionale)  ma è possibile impostare congelamenti con diversa frequenza. Gli scostamenti tra costo evolutivo e costo standard misurano l’effetto economico di:
    •  modifiche al prodotto che sono di responsabilità principalmente di R&D e tecnologia di processo.
    • Cambiamenti strutturali della modalità preferenziale di approvvigionamento, di solito derivanti da decisioni strategiche in area operations.
  • Costo “preliminare”: costruito utilizzando dati preventivi ottenuti dai singoli ordini di produzione, e eventualmente  di acquisto. Un ordine di produzione è solitamente corredato in fase di apertura con dati preventivi copiati da quelli preferenziali validi in quel momento. Tali  dati vengono poi eventualmente modificati in funzione delle esigenze contingenti di programmazione della produzione:  ad esempio,  una situazione di sovraccarico su un centro di costo produttivo che impone di effettuare all’esterno una certa lavorazione. Una eventuale necessità  di acquistare un prodotto che è normalmente di produzione interna verrà identificata includendo nell’analisi anche gli ordini di acquisto.  Gli scostamenti tra e costo preliminare e  costo evolutivo misurano l’effetto economico delle decisioni di approvvigionamento “day by day”,  che sono di responsabilità della programmazione della produzione.
  • Costo effettivo:  deriva dai dati consuntivi ottenuti dai singoli ordini di produzione. Le varianze tra questo e il costo preliminare sono le tipiche varianze di efficienza sull’impiego dei materiali e delle attività di trasformazione, di competenza della produzione.
Alcune precisazioni:
  • questo approccio si basa sulla valorizzazione gestionale delle scorte a standard. Ciò significa che tutte le varianze di prezzo sui fattori produttivi acquistati vengono identificate e contabilizzate a fini gestionali all’atto dell’acquisto, e tutte le configurazioni di cui sopra sono costruite con prezzi dei materiali e delle lavorazioni esterne a standard.
  • Come ulteriore conseguenza del punto precedente, e varianze sui semilavorati e sui prodotti finiti sono analizzate sempre con riferimento ad un ordine di produzione , e tutti i componenti utilizzati nell’ordine (riferiti a livelli precedenti della distinta base) sono per quell’ordine  valorizzati a standard.
  • E’ altamente consigliabile in aziende caratterizzate dalle complessità di cui sopra impostare una suddivisione per macronature all’interno delle varie configurazioni di costo, per ottenere ulteriori dettagli di varianza e agevolare la riconciliazione dei dati di costo consuntivi con la contabilità analitica. Un paio di esempi:
    •  se un item definito a standard di acquisto viene fabbricato, il costo preliminare evidenzierà  un grosso risparmio sui materiali rispetto all’evolutivo, compensato però dalla presenza di  un costo di trasformazione  che sull’evolutivo era ovviamente pari a zero. La nuova ripartizione di costo sarà coerente con i consuntivi  desunti dalla contabilità analitica, mentre il totale del costo  fornirà l’impatto economico dell’alternativa applicata.
    • Isolare il markup intercompany all’interno del costo,  come descritto nel mio precedente post “PRODUCT COSTING DI GRUPPO IN AZIENDE MULTINAZIONALI COMPLESSE”,  permette di identificare correttamente la varianza sopra menzionata derivante dall’allocazione alternativa a un diverso stabilimento del gruppo.

 

Richiede impegno, ma ne vale la pena


Anni fa mi sono posto la questione di indagare in modo esaustivo quella che chiamavo genericamente “varianza di processo”, perché avevo il forte sospetto che fenomeni molto rilevanti fossero ignorati. Emergenze aziendali e la stessa complessità dell’argomento nel mio contesto di riferimento mi hanno impedito per un certo tempo di destinare il tempo e le risorse necessarie.  Quando questo è diventato possibile il mio sospetto iniziale è stato confermato.  L’effetto economico di una varietà di scelte di allocazione produttiva, a volte lasciate al caso,  è diventato evidente. Così è stato possibile responsabilizzare gli enti aziendali preposti a tali scelte, e  collaborare per  mettere progressivamente sotto controllo la situazione.  I benefici a livello di conto economico, nonché di attendibilità dei costi preventivi, sono stati molto evidenti. 

domenica 25 agosto 2013

Dare un costo ai prodotti nuovi

Una delle principali leve per incrementare la competitività è chiaramente l’introduzione di nuovi prodotti: sia come veicolo all’innovazione, sia per ampliare la gamma, quindi coprire in modo più puntuale le esigenze dei clienti. 
Introdurre nuovi prodotti è cosa buona e giusta, ma può capitare che la proliferazione di varianti introduca complessità senza generare valore. Inoltre,  non è mai semplice monitorare sin dal principio che i nuovi prodotti raggiungano gli obiettivi di profittabilità, o, più semplicemente, che siano profittevoli. Infatti il processo di definizione di un costo a preventivo (standard) su un prodotto nuovo è ben diverso da quello dei prodotti esistenti, e, se il tasso di innovazione è molto alto e se non si pone la dovuta attenzione nell’ottimizzare tale processo, si rischia di ritrovarsi con stime di costo poco attendibili, rischi sulla profittabilità, nonché un grosso carico di lavoro destrutturato a carico del controllo di gestione.
Un efficiente processo di costing dei nuovi prodotti deve essere strettamente integrato (e di fatto far parte) dei processi aziendali di innovazione ed evoluzione prodotto, e curare che a ogni passo della definizione prodotto sia associata la generazione delle informazioni rilevanti a definire il costo stesso.

Cos’è un nuovo prodotto


E’ importante distinguere i nuovi prodotti dai nuovi codici. Possono essere considerati nuovi prodotti solo quelli che, rispetto alla gamma esistente:
 - danno nuove funzionalità
 - migliorano le prestazioni
 - incrementano la versatilità
in un modo che il cliente può percepire tanto da accettare di pagare di più rispetto alle proposte della gamma esistente.
La stessa logica si applica ai componenti di prodotti finiti che rientrano nella casistica di cui sopra, sia utilizzati internamente che venduti a terzi.
A queste condizioni è ammissibile che un nuovo prodotto costi più del suo parente più prossimo o del prodotto che andrà a sostituire, coerentemente con il maggior valore che il cliente percepirà.
Molto spesso vengono generati nuovi codici articolo a cui non corrispondono nuovi prodotti, in quanto le condizioni di cui sopra non sono verificate. Ciò avviene a seguito di modifiche sul disegno di un prodotto esistente con l’obiettivo di sostituirlo dopo il suo phase out, ed è fisiologico nell’evoluzione della gamma. Dovrebbe però verificarsi solo per due motivi:
-          Risparmio sul costo del prodotto
-          Miglioramento della qualità
e ovviamente solo nel secondo caso può dare luogo ad un incremento di costo rispetto al sostituto.
Il nuovo codice crea una discontinuità nel monitoraggio, se non si mantiene un legame tra questo e il codice sostituito. A rigor di logica il codice prodotto nuovo dovrebbe ereditare il costo del prodotto che sostituisce per non falsare le analisi di profittabilità, dato che il valore per il cliente non cambia. La differenza di costo fra il sostituto e il sostituito sarà da considerare varianza industriale specificamente correlata all’attività dell’R&D.

Quali dati servono e quando


Come accennato all’inizio,  la definizione di un costo preventivo affidabile e il più possibile oggettivo dipende dalla tempestiva raccolta di informazioni rilevanti, che deve necessariamente avvenire nelle varie fasi del processo di innovazione / evoluzione prodotto. Non mi soffermo sui dettagli di tale processo, che può essere diverso da azienda a azienda, ma in generale:
-          Per supportare la decisione del lancio del nuovo prodotto è necessario definire un target di costo. Questo è tipicamente un dato stimato, definito attraverso un’attività di preventivazione e analisi del valore, e non dovrà necessariamente coincidere con il costo standard. E’ però un’informazione molto importante per monitorare la sostenibilità del business case durante la progettazione.
-          All’atto del rilascio del disegno definitivo deve essere resa disponibile e inserita a sistema la distinta base del prodotto. Eventuali componenti nuovi derivanti da tale distinta base dovranno seguire lo stesso processo.
-          E’ tassativo indicare prima dell’introduzione in gamma se il prodotto sarà (prevalentemente) fabbricato o acquistato da terzi, perché a seconda di questa scelta le informazioni necessarie saranno ovviamente differenti:
     o   Per i prodotti fabbricati, prima che sia possibile dichiarare un fabbisogno (escludendo i prototipi), è necessario avere definito e inserito a sistema la lista delle attività (produttive e non, se applichiamo l’ABC) necessarie, con la loro quantificazione (es. tempi di lavorazione, costo delle lavorazioni esterne) e i lotti ottimali di produzione.
     o   Per i prodotti acquistati, prima dell’emissione di un’ordine di acquisto (escludendo i prototipi) è necessario avere identificato il lotto ottimale di fornitura e negoziato il costo di acquisto relativo a quel lotto. Questo è spesso un passaggio delicato perché anche il fornitore è in una fase di startup, quindi fornirà quotazioni provvisorie.
Se le informazioni di cui sopra non saranno disponibili a tempo debito il prodotto potrà risultare non costificabile in automatico quando i primi pezzi cominceranno ad affluire a magazzino. Vediamo ora cosa è possibile fare per mitigare questo rischio.

Semafori


Uno dei modi per assicurare che i nuovi prodotti siano costificabili è verificare periodicamente (ad esempio tutti i giorni) e a preventivo, non appena un nuovo codice è creato a sistema,  che tutte le informazioni rilevanti siano già state inserite, segnalando un anomalia (semaforo rosso) se una o più informazioni mancano.  I controlli possono essere svolti attraverso semplici query, se non sono già disponibili nel proprio ERP. Le anomalie possono essere così segnalate agli enti aziendali preposti per il completamento dei dati.
Questa soluzione ha come vantaggio la semplicità di implementazione, ma non è particolarmente efficiente, perché comporta una “rilavorazione” di codici già gestiti e non evita il rischio di avere prodotti senza costo standard al momento dell’entrata a magazzino o, peggio, della vendita.

Workflow


Un approccio più strutturato richiede la definizione di un workflow, ossia una sequenza organizzata di attività di pertinenza di vari soggetti/enti. Al compimento di una certa attività il soggetto /ente che deve svolgere l’attività successiva è automaticamente avvisato. Inoltre,  se un determinato compito non è stato svolto una serie di attività a valle viene inibita, in funzione dello stato che il codice assume in ogni momento.
Solo a titolo di esempio, un workflow potrebbe richiedere l’inserimento dell’informazione di approvvigionamento (acquisto/fabbricazione) prima di richiedere l’inserimento della distinta base in caso di prodotto fabbricato o del fornitore preferenziale in caso di prodotto acquistato. Inoltre, sempre come esempio,  potrebbe inibire il lancio di un ordine di produzione in assenza di una distinta base.
Il workflow indirizza tutto il processo di creazione nuovi prodotti, non solo la costificazione. Se ben disegnato ne assicura la qualità e l’efficienza. D’altra parte introduce una certa rigidità nel flusso delle attività, comunque ampiamente ripagata dall’eliminazione delle “rilavorazioni” sul codice prodotto.

Conclusioni


In aziende che generano alcune migliaia di prodotti nuovi all’anno, situazioni che ho avuto occasione di sperimentare, la strutturazione dell’attività di creazione di nuovi prodotti diventa  una scelta obbligata. In compenso, l’attenzione alle informazioni necessarie al costing, oltre a rendere efficiente l’attività, aiuta ad assicurare coerenza e robustezza all’intero processo.


martedì 16 luglio 2013

Buttiamolo nel mix….. spunti operativi sull’analisi della marginalità.


Analizzare i margini in una realtà commerciale articolata richiede alcune attenzioni, in particolare quando si è in presenza di una segmentazione (prodotto/cliente/canale) con livelli di profittabilità molto diversi al suo interno. In questi casi il margine totale può variare anche significativamente a seguito di spostamenti di volume tra i segmenti. Il delta mix, a volte considerato un sottoprodotto residuale dell’analisi di base (prezzo, cambio, volume), in alcuni casi spiega la maggior parte dello scostamento e, se non correttamente interpretato, comunicato e gestito, può portare spiacevoli sorprese.

Non dimentichiamo il riferimento


La base di riferimento (tipicamente il budget) deve avere un livello di dettaglio sufficiente da permettere di identificare eventuali spostamenti di volume tra elementi a marginalità diversa. In altri termini, posso permettermi di fare un budget a livello di gruppo di prodotti (e non di codice prodotto) solo se sono certo che i prodotti all’interno del gruppo saranno sempre allineati tra loro in termini di margine. Se le cose non stanno così, o se i nostri commerciali non ci forniscono sufficienti informazioni, è sempre il caso di dettagliare il budget (nel peggiore dei casi utilizzando il mix di un periodo precedente, anche se siamo certi che il futuro sarà diverso), così da formalizzare un set di ipotesi verso cui verificare gli scostamenti. 

Il delta volume: quanto ho venduto di cosa?


La definizione di delta volume è la variazione di margine (identificabile solo in valore assoluto) dovuta alla variazione dei volumi di vendita rispetto a quelli di riferimento. Ma solo quando si scende al massimo livello di dettaglio (codice prodotto) il concetto di volume si fa chiaro: pezzi, espressi nell’unità di misura di magazzino.

Analizzare il delta volume di un gruppo di prodotti nel suo complesso richiede di identificare una unità di volume comune a tutti i suoi codici, e questo, a seconda della tipologia di prodotto, può essere più o meno immediato. Nei casi estremi si può sempre ricorrere, per esempio, al peso, ma quando il costo/Kg dei codici prodotto dello stesso gruppo differisce notevolmente si rischia di distorcere l’analisi. Saremmo davvero autorizzati ad affermare che 1 Kg di prodotto che costa 1 euro al Kg “vale” in termini di volume come 1 Kg di un altro prodotto che costa 2 euro al Kg?

Dovendo gestire un “caso estremo”, ossia la coesistenza nello stesso gruppo di prodotti con differente contenuto di valore aggiunto e molto variabili nelle dimensioni , ho optato per una soluzione, probabilmente non ortodossa, ma che si è rivelata molto efficace: usare come misura di quantità il costo (standard) del prodotto. Forse in questo caso, più che di delta volume bisognerebbe parlare di “delta valore” ma in pratica il risultato è lo stesso. 

Il delta mix: la varianza dai mille volti


Il delta mix è la variazione di margine (sia in valore assoluto che percentuale) che deriva dal cambiamento della composizione delle vendite rispetto al riferimento, con spostamento dei volumi tra elementi delle dimensioni analizzate (clienti, prodotti, zone geografiche) con marginalità diversa.

Chiunque abbia avuto a che fare con l’analisi dei margini ha ben chiaro che Il delta volume e il delta mix sono strettamente correlati, e il loro valore è diverso all’interno della stessa analisi a seconda dell’angolazione che si da alla stessa. Se analizziamo i margini guardando solo al livello massimo di dettaglio (prodotto/cliente), troviamo su ogni riga delta mix pari a zero, quindi, riga per riga, non c’è che (ovviamente) varianza di volume. Passando ad analizzare, per esempio il raggruppamento area geografica, il delta mix assume un valore diverso da zero su ogni gruppo e il delta volume cambia di conseguenza, perché la somma delle due varianze deve rimanere la stessa. Analizzando il raggruppamento prodotti il delta mix e il delta volume si ridistribuiranno in modo ancora diverso, e così sarà guardando al totale, che risentirà dell’effetto mix combinato di tutte le dimensioni analizzate.

Un foglio elettronico vale più di mille parole


A supporto dei miei affannosi tentativi di spiegarmi ho allegato un foglio elettronico di esempio, che riprende uno strumento di lavoro implementato in anni passati , utilizzato in una importante realtà multinazionale. Il tutto si basa su una tabella pivot che riprende un database di vendite, costi standard e margini, sia a consuntivo che a budget. Il foglio elettronico va scaricato sul proprio computer per navigare la tabella pivot.

L’esempio si basa su una gerarchia prodotto (gruppo prodotti / codice) e cliente (Area geografica / cliente), i dati sono stati generati in modo pseudocasuale. Per non complicare l’esempio ho omesso problematiche relative al delta cambio, presenti nell’implementazione originale. L’ordine dei campi delle dimensioni di analisi può essere modificato a piacimento, ma non è possibile aggiungere o togliere campi, per preservare il funzionamento delle formule sulla destra.
Mi soffermo sulla formula del delta volume:

Mbdg*(STDact/STDbdg-1) 

dove Mbdg è il margine di budget, STDact è il costo standard a volume consuntivi e STDbdg è il costo standard a volumi di budget. La variazione del volume è misurata sulla variazione del costo standard, come sopra descritto.
Invito chi è interessato a provare diverse chiavi di lettura modificando l’ordine dei campi, ma vorrei sottolineare che la somma delle varianze di volume o mix derivata dalle righe di dettaglio non coincide (e non deve farlo!) con l’analoga varianza sul totale di raggruppamento, come già sottolineato prima e come mostrato qui sotto.



La soluzione mostrata è un esempio di come un’analisi margini può essere implementata con strumenti relativamente semplici senza lasciare soggettività nell’allocazione a una varianza o all’altra. Il Controller può dedicarsi ad attività a valore aggiunto come l’individuazione delle varianze più significative, la loro interpretazione e la relativa comunicazione al management.

domenica 7 luglio 2013

Direct costing nelle aziende manifatturiere: e la valutazione delle rimanenze? Un caso concreto.

Come noto agli addetti ai lavori, il “direct costing” è una metodologia di calcolo dei costi di prodotto, che si differenzia dal più noto e utilizzato “full costing” nel fatto che considera analiticamente nel costo unitario di produzione solo quelle componenti che sono direttamente e oggettivamente riferite all'oggetto del calcolo (nel nostro caso il prodotto) e il cui ammontare totale varia in proporzione al variare della quantità prodotta. Quindi le componenti fisse e indirette del costo semplicemente non vengono riportate ai costi unitari tramite allocazioni o ribaltamenti, ma vengono analizzate solo a livello di centro di costo.
Ci può essere una serie di buoni motivi per adottare questa metodologia: è “lean”, evita la soggettività dei criteri di allocazione dei costi fissi, ci libera definitivamente dall'analisi delle varianze di assorbimento. Ma anche una serie di svantaggi: fornisce una lettura parziale del costo del venduto, mostra ai commerciali un margine “troppo alto”, non è riconosciuta dai principi contabili (ma di questo parleremo tra breve).
Scopo di questo scritto non è comunque né di spiegare la metodologia direct costing (la letteratura in proposito è immensa), né di valutarne pregi e difetti a seconda dei contesti (anche se personalmente sono un fan di questo approccio), bensì di fornire qualche spunto concreto a chi ha deciso di implementare il (o passare al) direct costing in una attività manifatturiera.

E la valutazione delle rimanenze?


Come accennato in precedenza, il direct costing non è una metodologia riconosciuta dai principi contabili né locali né internazionali, quindi le rimanenze devono comunque essere valorizzate includendo una quota di costi fissi (di produzione, di logistica, di approvvigionamento…). Questo genera due conseguenze:
- sarà necessario gestire, oltre al database di costi “direct”, un ulteriore set di dati per valorizzare le rimanenze;
- vi sarà una differenza tra il costo del venduto secondo principi contabili e quello ottenuto applicando il direct costing, dovuta alla differenza tra la quota di costi fissi “sospesa” nelle rimanenze finali e in quelle iniziali. Se ad esempio durante un esercizio il livello delle scorte cresce, una parte dei costi fissi sostenuti nell'esercizio stesso rimane “inglobata” nel valore delle scorte e avrà impatto a conto economico solo negli esercizi successivi. 

Possibili soluzioni: ancora il costo “scomponibile”

Cosa è possibile fare praticamente per superare le difficoltà appena esposte: una soluzione molto semplice (qualora accettata dai revisori esterni) può essere quella di definire una quota di costi fissi (tipicamente in percentuale), calcolata preventivamente ed eventualmente aggiornata a consuntivo, che viene applicata a ogni costo unitario calcolato secondo direct costing al solo fine di valorizzare le scorte a fini IFRS o local GAAP. Dato che questa allocazione non è utilizzata a fini gestionali o per l’analisi delle varianze, meglio tenerla la più semplice possibile, fatta salva la coerenza con i principi contabili.
Mi soffermerei però sulla soluzione che mi è capitato di utilizzare, che si basa sulla segmentazione del costo di prodotto in componenti significative, che possono essere considerate o meno a seconda delle necessità.
Mi spiego meglio: l’idea è calcolare analiticamente e separatamente il costo variabile e quello fisso per ogni singolo prodotto, per poi rimetterli insieme quando necessario. Questo significa mantenere dei tassi orari per centro di costo e delle modalità di allocazione tipiche del full costing, ma avere un calcolo autonomo per la parte fissa del costo del prodotto (per ordine di produzione e, ad esempio, la relativa media ponderata per la valutazione dei magazzini). Questa modalità è particolarmente valida per chi proviene da un approccio full costing già implementato, perché permette di mantenere la continuità con i valori di magazzino del passato e smorza i “traumi” organizzativi dovuti al passaggio da un metodo all'altro.

Riconciliare il costo del venduto

Nell'utilizzo del direct costing l’impossibilità di mantenere l’allineamento tra i “management accounts” a costi variabili e l'informativa esterna è cosa molto fastidiosa per il controller, perché il parametro per il management quasi sempre rimane il secondo.
Il disallineamento, come descritto in precedenza, è dato dalla differenza tra la quota di costi fissi nelle rimanenze finali e la stessa quantità nello stock iniziale. Se tale valore è positivo è equivale a un ricavo.
Le soluzioni esposte permettono quantomeno di tracciare e segregare questo disallineamento mantenendo coerenza su tutti gli altri dati. Se si scegliesse infatti di avere due calcoli indipendenti per il direct costing e per le scorte a full, la parte variabile dei due calcoli potrebbe disallinearsi per mille motivi e diventerebbe molto difficile accorgersene.
Avendo segregato e tracciato il disallineamento, e conoscendone il dettaglio, la modalità che io ho preferito è stata di introdurlo come una posta specifica nel conto economico gestionale, come nell’esempio ipersemplificato qui riportato. 
 L’andamento di questa posta, che a budget (a meno di situazioni particolari) ha valore nullo, può essere analizzato come una varianza sulla base dei dati disponibili.

Considerazioni finali

Il passaggio al direct costing è gestibile, con alcune accortezze, e quando mi è capitato di attuarlo non ho avuto particolari contraccolpi organizzativi, pur beneficiando di una notevole semplificazione e intuitività nel leggere il business. Quello che mi sento di consigliare comunque è un accurato training all'area commerciale sul cambiamento del margine di riferimento da margine industriale a margine di contribuzione, che è normalmente molto più alto in percentuale del primo. Questo per evitare che l’incremento puramente tecnico del margine di riferimento si traduca in una percezione di maggiore redditività e, di conseguenza porti a una riduzione dei prezzi.
Ho riferito questi pochi concetti a una società non facente parte di un gruppo per evitare di complicare troppo il quadro. In realtà mi sono trovato ad applicarli a un gruppo multinazionale, ovviamente  con una soluzione più articolata, che potrà essere argomento di approfondimenti successivi.

giovedì 27 giugno 2013

PRODUCT COSTING “DI GRUPPO” IN AZIENDE MULTINAZIONALI COMPLESSE – SPUNTI DI RIFLESSIONE

Un processo normalmente considerato supertecnico e routinario come il calcolo del costo standard di prodotto, in realtà va disegnato con attenzione sulle specificità dell’azienda a cui si riferisce, per assicurare che le analisi di profittabilità predisposte utilizzando tali costi siano significative e corrette. Nel caso che riporto, taluni gruppi multinazionali manifatturieri richiedono più di altri un approccio “globale” al costo di prodotto.

I gruppi multinazionali non sono tutti uguali


Quando si pensa ad un gruppo multinazionale spesso si tende ad identificarlo con grandi e universalmente noti produttori di beni di largo consumo, nei quali l’articolazione geografica è finalizzata a servire una pluralità di mercati locali (una società per un mercato) attraverso una produzione in loco, acquisto da terzi o importazione da altre società del gruppo. L’analisi dei margini sul mercato locale è attuata considerando eventuali margini relativi a forniture intercompany come parte del costo di prodotto, dopo aver definito (e a volte negoziato) un “equo” prezzo di trasferimento con la consociata fornitrice.
Non è però infrequente imbattersi in gruppi che, per motivi diversi (dimensioni, peculiarità dei mercati di riferimento, crescita o internazionalizzazione avvenuta per acquisizioni successive) si articolano in modi totalmente differenti: tutte o diverse società del gruppo si affacciano al mercato globale o a una specifica area geografica con la loro tipologia di prodotto, ottenuta assemblando componenti ricevuti da altre società del gruppo, generando flussi intercompany incrociati spesso molto consistenti.

La complessità risultante potrebbe essere ridotta attraverso una profonda revisione organizzativa e di footprint (ma questo è spesso oneroso e complesso a sua volta), può essere gestita (di seguito alcune considerazioni in tal senso), di certo non può essere ignorata.

L’importanza del “costo di gruppo” in ambiti multinazionali complessi


E’ sempre più essenziale per competere su mercati globali l’esatta identificazione dei margini, in particolare a preventivo, perché la concorrenza è forte e gli spazi di manovra  esigui. E’ molto semplice passare da un deal perso perché il prezzo è troppo alto a un deal acquisito ma con margini insoddisfacenti, se non negativi.

In realtà complesse come quelle sopra descritte il calcolo costi di prodotto svolto in autonomia dalla società venditrice si baserebbe per i componenti da intercompany solo su un “transfer price”, di fatto sganciato dal reale costo di produzione della consociata fornitrice. Il risultato sarebbe un costo del prodotto finito “sporco”, inadatto a coprire le esigenze sopra indicate.Quello che serve, e di cui mi sono occupato nel mio passato professionale, è una modalità efficiente per costruire un costo standard che rappresenti fedelmente il consolidamento delle attività svolte nelle diverse società del gruppo, non distorto dai markup intercompany.

Il calcolo del costo di gruppo – il piano di produzione al contrario


Le principali difficoltà che si incontrano nel calcolo di un costo standard di gruppo sono legate all’allineamento dei database dei costi di acquisto tra le facilities che svolgono il calcolo. Inoltre, come assicurare che, quando si costifica un prodotto finito, tutti i componenti provenienti da altre facilities del gruppo siano già stati calcolati e siano considerati?

D’altro canto è importante ricordare che il processo di costing ripercorre a ritroso quello di planning (DRP, MRP, capacity planning) e utilizza le stesse informazioni (distinte base, cicli di lavorazione, legami di distribuzione, ipotesi make/buy…). Se il processo di programmazione della produzione a livello gruppo è valido, il processo di costing potrà essere disegnato ripercorrendo all’indietro gli stessi steps e utilizzando le stesse informazioni (opportunamente “congelate”) e sarà altrettanto efficace.
Nel concreto e per grandi linee, la soluzione attuata si basa sui seguenti punti:
· effetuare il calcolo dei costi standard di tutte le società coinvolte in un intervallo di tempo ristretto (poche ore),
· “congelare” le informazioni rilevanti per il calcolo contemporaneamente su tutte le facilities.
· Trasferire automaticamente I costi dei prodotti di fornitura intercompany alla facility che calcola il prodotto finito “padre” o che vende.
Al fine di assicurare la completezza delle informazioni di costo, il calcolo costi viene effettuato partendo dalla società/stabilimento senza (o con la minore incidenza) di acquisti intercompany, i costi di prodotto risultanti sono messi a disposizione automaticamente per il calcolo delle altre società/stabilimenti che si approvvigionano dalla prima, e così via. In caso di acquisti incrociati il calcolo delle società coinvolte viene svolto più di una volta. Il processo è ripetuto fino a riempire tutti i “buchi” di costo nei calcoli di ogni sito. La sequenza dei calcoli tra le facilities è definita applicando a ritroso la sequenza utilizzata per il piano di produzione di gruppo.

La segregazione del markup. Il costo “scomponibile”.


Ma non basta. Ogni trasferimento tra società, introduce un markup che oltre che essere calcolato secondo le regole definite dalle policy e dalla legge, deve anche essere tenuto separato dal “vero” costo del prodotto. Nella soluzione implementata l’interfaccia che trasferisce i costi da una società all’altra calcola anche la percentuale di markup e provvede a trasferire il risultato in un elemento di costo specifico. Nel caso di componenti o semilavorati trasferiti intercompany, anche il calcolo del prodotto finito “padre”, attraverso l’impiego in distinta base e un’eventuale percentuale di scarto standard, deve mantenere separato il markup derivante dai “figli”. Questo approccio “modulare” permette di utilizzare il costo così calcolato sia per esigenze locali (valutazione dei magazzini, analisi varianze) che per l’analisi dei margini consolidati di gruppo, una volta escluso l’elemento di costo del markup dal totale.

Prerequisiti


Le considerazioni appena esposte sono fatte a prescindere da aspetti organizzativi o di sistema, ma è evidente che un approccio di gruppo al costo richieda funzioni corporate strutturate ed esperte (in particolare controllo di gestione, uffici tecnici e programmazione della produzione) e che la disponibilità di un sistema ERP unico su cui costruire la soluzione sia un notevole vantaggio. Ciò che ho brevemente descritto ha potuto beneficiare di entrambi i fattori, e i risultati in termini di velocità di calcolo e qualità del risultato sono stati molto positivi. La possibilità di calcolare l’intera base costi di gruppo in una notte (su una decina di siti produttivi) e di poter modificare qualcosa e rilanciare il tutto la notte successiva ha dato una svolta al processo di budget in termini di velocità e controllo sulle ipotesi ad esso sottese.
To be continued...